Totò,Antonio de Curtis,nacque il
15 febbraio 1898 nel
rione Sanità, in
via Santa Maria Antesaecula, al secondo piano del civico 109, da una relazione clandestina di Anna Clemente (
Palermo,
1882 –
Roma,
1948) con Giuseppe de Curtis (
Napoli,
12 agosto 1873 –
Roma,
29 settembre1944) che, in principio, non lo riconobbe. L'assenza della figura paterna pesò molto, anche in seguito, sul carattere dell'attore, tanto che nel
1933, già famoso sui palcoscenici italiani, si fece adottare dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas, in cambio di una rendita.
[7]
Il palazzo in cui è nato Totò
Studiò al collegio Cimino senza ottenere la licenza ginnasiale: la madre lo voleva sacerdote, ma, incoraggiato dai primi successi nelle piccole recite in famiglia (chiamate a
Napoli"
periodiche"), e attratto dagli spettacoli di varietà, nel
1913, a soli quindici anni, iniziò a frequentare i teatrini periferici esibendosi in
macchiette e imitazioni del repertorio di
Gustavo De Marco con lo pseudonimo di
Clerment.
[7]
Proprio su questi palcoscenici di periferia incontrò attori del calibro di
Eduardo De Filippo,
Peppino De Filippo e i musicisti
Cesare Andrea Bixio e
Armando Fragna. Durante gli anni della
prima guerra mondiale si arruolò volontario per il
Regio Esercito nella 22° fanteria, rimanendo di stanza dapprima a
Pisa e poi a
Pescia. Venne quindi trasferito al 182° battaglione di milizia territoriale, unità di stanza in
Piemonte ma destinate a partire per il fronte francese. Qui si situa il comico episodio nel quale, prima di partire, il comandante del suo battaglione lo avvertì che avrebbe dovuto condividere i propri alloggiamenti in treno con un reparto di soldati marocchini "dalle strane e temute abitudini sessuali" (come lo stesso Totò riporterà in seguito nella sua biografia). Totò a questo punto, terrorizzato, decise di improvvisare un attacco epilettico alla stazione di
Alessandria, riuscendo a farsi ricoverare nel locale ospedale militare e a non partire per la
Francia. Rimasto in osservazione per un breve periodo, quando venne dimesso dalle cure ospedaliere venne inserito nell'88° reggimento di fanteria "Friuli" di stanza a
Livorno.
[8] Proprio in quel periodo Totò subì continui soprusi e umiliazioni da parte di un graduato; da quell'esperienza nacque il celebre motto dell'attore: "Siamo uomini o caporali?".
[8]
Dopo il servizio militare, si esibì ancora come macchiettista, scritturato dall'impresario
Eduardo D'Acierno - diventò poi celebre la macchietta del "
Bel Ciccillo" riproposta nel
1949nel film
Yvonne la nuit - e ottenne un primo successo alla Sala Napoli, locale minore del capoluogo campano, con una parodia della canzone di
E. A. Mario Vipera, intitolata
Vicolo.
Su questi palcoscenici, spesso improvvisati, con orchestre di second'ordine e comprimari raccogliticci, Totò imparò l'arte dei
guitti, ossia di quegli attori - napoletani e non - che recitavano senza una sceneggiatura ben impostata, arte alla quale Totò aggiunse caratteristiche tutte sue: una conformazione particolare del naso e del mento - frutto di un incidente giovanile col precettore del ginnasio - movimenti del corpo in libertà totale, da burattino snodabile, e una comicità surreale e irriverente, pronta tanto a sbeffeggiare i potenti quanto a esaltare i bisogni e istinti umani primari: la fame, la sessualità, la salute mentale.
I primi successi [modifica]
| « Io sono un uomo di mondo... ho fatto tre anni di militare a Cuneo! » |
| (Nello sketch del "vagone letto", ripreso in Totò a colori) |
Totò verso la fine degli anni Venti
Nel
1922 si trasferì a
Roma con la madre e in un primo momento ottenne alcuni ingaggi in compagnie di basso livello impegnate nella recitazione di farse
pulcinellesche, nelle quali gli toccava il ruolo minore del
mamo, la spalla di Pulcinella. Con la compagnia di
Umberto Capece fece poca strada; dopo un breve periodo di disoccupazione venne però notato da
Giuseppe Jovinelli, titolare del
teatro omonimo, dove iniziò a esibirsi in imitazioni e balletti musicali comici che ottennero un grande successo di pubblico. Approdò quindi alla
Sala Umberto, frequentata dalla migliore società della capitale: il successo crebbe ancora. Il suo costume di scena in questo periodo era già quello a cui restò fedele sino alla fine: un logoro cappello a
bombetta, un
tight troppo largo, una camicia col colletto basso, una stringa come "farfallino", pantaloni "
a zompafosso" e un paio di calze colorate su scarpe basse e logore.
[9]
Oltre al costume scenico, il suo modo di recitare. Totò è come preso dalla "mania della fame". La sua capacità di rendere al meglio l'espressione di uomo affamato e mai sazio è data dalla sua voglia di mettere in scena la povertà, e rappresentarla con la sua faccia peggiore: la fame. Totò infatti affermava sempre che l'attore, per recitare come tale, deve andare in scena sempre prima di mangiare.
Il variété e l'avanspettacolo [modifica]
| « ... bazzecole, quisquilie, pinzellacchere! » |
| (Un modo di dire tipico di Totò) |
Dal
1925 iniziò a farsi conoscere anche a livello nazionale, recitando in spettacoli di
variété, e andando in
tournée nelle maggiori città italiane. Nel
1927 fu scritturato, nuovamente a Roma, da
Achille Maresca, titolare di due diverse compagnie; Totò entrò a far parte prima della compagnia di cui era
primadonna Isa Bluette, una delle
soubrette più in voga del periodo, e poi, dal
1928 di quella di
Angela Ippaviz; gli autori erano "Ripp" (Luigi Miaglia) e "Bel Ami" (Anacleto Francini).
[10]
In questo periodo conobbe un'attrice di varietà di origine genovese,
Liliana Castagnola, con la quale visse una breve ma intensa storia d'amore (pare che una sera Totò recitò in un teatro al buio solo per lei); la relazione con la bellissima
chanteuse, però, fu funestata da continue avversità: Totò riceveva spesso biglietti e telefonate anonime che lo mettevano in guardia da quella donna dal carattere strano. In effetti la Castagnola, fino al momento dell'incontro con Totò, era stata costante oggetto delle cronache mondane: fu espulsa dalla Francia per aver indotto due uomini al duello; a Montecatini un suo amante respinto si tolse la vita, dopo averle sparato un colpo di pistola che la ferì di striscio al viso (a causa della cicatrice, sebbene lieve, la Castagnola adottò la pettinatura "a caschetto" che le copriva le guance); dilapidò il patrimonio di un nobile che fu per questo interdetto su richiesta dei familiari.
Sebbene fosse una donna fatale sia sul palcoscenico sia nella vita reale, aveva per l'artista napoletano un sentimento sincero e passionale, per il quale era disposta a buttarsi alle spalle una vita girovaga e senza freni. Liliana, pur di restare accanto al suo uomo, propose di farsi scritturare al Teatro Nuovo di
Napoli, ma Totò, stanco della relazione con quella donna possessiva e opprimente, decise infine di accettare un contratto con la compagnia "Cabiria" che lo avrebbe portato a
Padova.
L'epilogo fu che Liliana si suicidò ingerendo un intero tubetto di sonniferi. A soli 35 anni fu trovata morta, la mattina dopo, nella sua stanza d'albergo. Il suo biglietto d'addio a Totò esprimeva tutto lo strazio dell'innamorata abbandonata: «Grazie per il sorriso che hai saputo dare alla mia vita disgraziata. Non guarderò più nessuno. Te l'avevo promesso e mantengo».
[12] La vicenda divenne un enorme scandalo giornalistico, cosa che d'altra parte fece una grande pubblicità a Totò, conosciuto, ma non ancora pienamente affermato come artista. L'attore rimase tuttavia sconvolto dal suicidio della donna tanto che decise di seppellirla nella cappella dei De Curtis a Napoli e battezzò Liliana la figlia che ebbe dalla moglie
Diana Bandini Lucchesini Rogliani.
Riprese a lavorare intensamente, e dopo un breve periodo in cui ritornò a lavorare con la compagnia di Maresca, dal
1932 diventò
capocomico, proponendosi (anche come impresario di compagnie che gravitavano intorno alla sua persona), nel genere dell'
avanspettacolo.
[11]
L'avvento del cinema sonoro e la scomparsa delle figure teatrali fino ad allora tradizionali come il "
fine dicitore" imposero questo cambiamento, e Totò divenne l'esponente più rappresentativo del nuovo genere, con riviste da lui anche scritte, spesso insieme a
Guglielmo Inglese (con
Eduardo Passarelli e
Mario Castellani come sue spalle), per tutti gli
anni trenta, e portate in scena in tutto il
Paese.
Tra le macchiette tipiche di Totò di questo periodo ne troviamo anche alcune che il comico poi riproporrà più tardi nel suo repertorio cinematografico: "Il pazzo", "Il chirurgo", "Il manichino". Lo spettacolo spesso si concludeva con la classica "passerella", mentre Totò correva tra il pubblico con una piuma sulla bombetta, al ritmo della fanfara dei Bersaglieri: anche questo sarebbe stato riproposto più tardi nel suo film
I pompieri di Viggiù.
[10]
Nel
1937 Giuseppe De Curtis lo riconobbe infine legalmente come figlio.
L'incontro con il cinema [modifica]
Totò nel
1930, nel suo primo provino cinematografico, con la
Cines
| « Ma mi faccia il piacere! » |
| (Uno dei modi di dire di Totò) |
Totò incontrò il cinema già nel
1930, con l'avvento del sonoro, quando
Stefano Pittaluga, un esercente ligure che aveva rilevato la
Cines dal fallimento e in quel momento produceva gran parte dei film italiani, decise di fargli un provino.
Il film, intitolato
Il ladro disgraziato, non vide mai la luce, ma esistono le riprese del provino, ritrovato e restaurato nel
1995[13]. Furono allora gli intellettuali che già lo ammiravano a teatro, i primi a volerlo in qualche loro progetto: tra di loro
Umberto Barbaro e soprattutto
Cesare Zavattini, che tentò infatti di imporlo nel
1935 per la parte di Blim nel film
Darò un milione di
Mario Camerini – ruolo andato poi a
Ernesto Almirante – e nel
1943 pubblicò il romanzo
Totò il buono pensando a lui.
Non realizzandosi questi progetti cinematografici il vero debutto avvenne sotto l'egida di
Gustavo Lombardo, il fondatore della
Titanus, il quale nel
1937 produsse il primo film di Totò,
Fermo con le mani![14] diretto da
Gero Zambuto, mediocre tentativo di proporre temi toccati dal personaggio di
Charlot, già superati dalla forza surreale, da burattino irriverente e snodabile, di Totò. In una scena del film rimasta celebre e stranamente non tagliata dalla censura dell'epoca, arriva a prendere in giro il Duce,
Benito Mussolini.
Una menzione particolare la merita poi
Il ratto delle Sabine del
1945 di
Mario Bonnard, storia di una scalcagnata compagnia di
guitti in giro per le città di provincia che decidono di rappresentare il testo mediocre di un professore deriso dai suoi stessi alunni, con un insuccesso colossale.
La grande rivista [modifica]
| « Totò era una maschera ed è paragonabile solo ai grandi come Chaplin, Keaton e i fratelli Marx. Ma noi che l'abbiamo diretto gli affidavamo parti troppo "umane" e lui finiva così per perdere inevitabilmente quella comicità surreale e astratta che era riuscito a sprigionare al massimo quando faceva la rivista e l'avanspettacolo. » |
| (Mario Monicelli in un'intervista su Totò dopo la sua morte[3]) |
Più in generale, questi primi esperimenti cinematografici, lunari e surreali, non ottennero il successo di pubblico che Totò aveva invece sul palcoscenico. Quando tornò al
teatro, alla fine del
1940, l'
avanspettacolo era già tramontato, sostituito dalla "
grande rivista", caratterizzata da scenografie sfarzose, primedonne da sogno (su tutte
Wanda Osiris), testi moderatamente satirici e qualunquistici per quanto concesso dal
regime fascista, comprimari e orchestre di grande livello.
In essi la forza satirica esercitata in vario modo prima contro il
regime fascista e quindi contro gli
occupanti tedeschi, è sempre ben presente: più volte la censura di regime intervenne per modificare battute considerate irriverenti, ma Totò, rischiando di suo, spesso pronunciava ugualmente le frasi tagliate suscitando autentiche ovazioni; dopo le prime rappresentazioni romane di
Che ti sei messo in testa, l'attore, avvertito che sarebbe stato di lì a poco arrestato (insieme ai fratelli De Filippo), dovette tuttavia scappare a
Valmontone per ripresentarsi solo dopo la
liberazione di Roma con una nuova rivista (
Con un palmo di naso) in cui finalmente dava libero sfogo alla sua satira impersonando Mussolini e
Hitler.
[15]
| « Io odio i capi, odio le dittature... Durante la guerra rischiai guai seri perché in teatro feci una feroce parodia di Hitler. Non me ne sono mai pentito perché il ridicolo era l'unico mezzo a mia disposizione per contestare quel mostro. Grazie a me, per una sera almeno, la gente rise di lui. Gli feci un gran dispetto, perché il potere odia le risate, se ne sente sminuito. » |
| (Totò[16]) |
Il periodo d'oro del comico si può circoscrivere dal
1947 al
1952, quello in certo senso più libero, con parodie di grande successo che contengono riferimenti satirici piuttosto espliciti, in molti casi alquanto pesanti, all'attualità: il dopoguerra, la borsa nera, i nuovi arricchiti, la sterilità di chi comanda (gli onorevoli e, in particolar modo, i "caporali", intesi genericamente come coloro che danno ordini alla truppa), furono presi di mira sia sul palcoscenico con le ultime due grandi riviste di
Michele Galdieri,
C'era una volta il mondo del
1947 e
Bada che ti mangio! del
1949, sia nel
cinema.
Se in teatro il successo crebbe a dismisura (basti pensare al celeberrimo
sketch del vagone letto con
Isa Barzizza e
Mario Castellani, presentato per la prima volta proprio nella rivista "
C'era una volta il mondo") anche sul grande schermo giunse un grandioso successo di pubblico, a partire da
I due orfanelli del
1947 fino a
Totò a colori del
1952. In questi film l'attore si scatena e la comicità di avanspettacolo è più pura, meno imbrigliata dalle maschere o personaggi che in seguito, per motivi diversi, alcuni autori tentarono di cucirgli addosso. Assediato da proposte di tutti i generi, senza avere a disposizione neanche una giornata libera, l'attore lavorava continuamente, girando a ritmo frenetico alcune delle sue parodie più folli, dirette dai cosiddetti "registi velocisti"
Mattòli,
Bragaglia,
Stefano Vanzina e il giovane
Luigi Comencini. Si ricordano in questo periodo, tra gli altri, titoli divenuti poi dei "classici" come
Totò le Mokò,
L'imperatore di Capri,
Totò sceicco.
È da notare che a volte il
copione, vuoi anche per i tempi ristrettissimi in cui venivano prodotti i suoi film, rappresentava solo un timido
canovaccioper Totò, che poi si trovava a improvvisare davanti alla macchina da presa: Totò inventava le battute, a volte perfino la trama; così tuttavia sono nate anche alcune delle sue scene più famose.
[17][18]
Ebbe anche, durante la stagione
1948-
1949, un'esperienza come doppiatore cinematografico per un film non suo, l'avventuroso-esotico
La vergine di Tripoli (
Slave girl) diretto per la
Universal Pictures da
Charles Lamont e interpretato da
Yvonne De Carlo e
George Brent. Nel film, ritrovato e riproposto in televisione nel
1996, il comico napoletano è la voce fuori campo di un cammello, ribattezzato
Gobbonenella versione italiana. Inoltre, nel manifesto nostrano della pellicola appare un curioso Totò disegnato a fumetti che pronuncia la frase
In questo film dico la mia anch'io!. Totò stesso fu in seguito talvolta doppiato soprattutto nelle scene con riprese esterne, dove gli attori non potevano recitare in presa diretta, poiché il grande artista napoletano non poteva doppiare sé stesso a causa dei problemi alla vista. I suoi doppiatori ottennero risultati non sempre di qualità, da
Renato Turi, voce radiofonica molto popolare negli anni cinquanta e sessanta (nel film
Totò diabolicus del
1962 nel ruolo del monsignore), ma soprattutto da
Carlo Croccolo, l'unico doppiatore autorizzato dall'attore e insieme al quale, nel
1964, scrisse la sceneggiatura per un film,
Fidanzamento all'italiana, che non fu mai realizzato per mancanza di finanziamenti.
Tra i doppiaggi di Croccolo applicati ai film con Totò si ricordano la voce della baronessa in
Totò diabolicus e soprattutto, nel film
I due marescialli la voce di Antonio Capurro (Totò) in una scena di esterni in una stazione e la voce prestata a
Vittorio De Sica (il Maresciallo Vittorio Cotone) nella stessa scena, fatto probabilmente unico nel cinema italiano. Diventato un beniamino del pubblico infantile, gli fu dedicata anche una collana a fumetti,
Totò a fumetti, pubblicata tra il
1952 e il
1953 in 12 numeri e 3 albi speciali dalle Edizioni Diana di Roma.
[19]
Proprio quando le cose a livello lavorativo sembravano andare per il meglio, alcune nubi oscurarono una vita familiare che l'attore, schivo, timido e riservato (esattamente il contrario di come lo si vedeva sul set o in palcoscenico) desiderava fosse serena e tranquilla. La moglie Diana, da cui in precedenza si era separato legalmente ma che continuava a vivere sotto il suo stesso tetto solo come "madre di sua figlia" (si erano separati nel 1939 in Ungheria), durante un ricevimento conobbe un avvocato, che poi sposò. La stessa figlia, poco tempo dopo, volle sposare contro la volontà paterna Gianni Buffardi (figliastro del regista
Carlo Ludovico Bragaglia), un uomo da cui avrebbe divorziato alcuni anni dopo. Nel
1951 Totò rimase dunque solo, e si gettò a capofitto nel lavoro interpretando film prodotti da
Carlo Ponti e
Dino De Laurentiis, i quali grazie ai guadagni delle sue pellicole avevano potuto allestire una loro società; in questo periodo Totò corteggiava insistentemente un'attrice dal grande fascino,
Silvana Pampanini, che però lo respinse.
[20][21]
La loro storia d'amore non fu frutto di un colpo di fulmine, ma si trattò di un progressivo avvicinamento fra persone caratterialmente molto diverse. A separarli, tra l'altro, una differenza d'età di trentatré anni. Proprio per la riservatezza e il pudore di entrambi, il presunto matrimonio realizzato segretamente all'estero (si scrisse in
Svizzera nel
1954) in realtà non avvenne mai, secondo ciò che la stessa Franca Faldini tenne a precisare. Totò, a tal proposito, spiegò in una lettera:
| « Perché ho il senso della misura, il senso del ridicolo, Franca è molto più giovane di me, e io non avrei mai sopportato i soliti maligni commenti del prossimo, l'attore Totò deve fare ridere, ma l'uomo Totò, anzi il Principe De Curtis mai, il Principe De Curtis - lo sappiamo - è una persona seria. » |
Poco tempo dopo i due andarono a vivere insieme in un appartamento in via dei Monti Parioli a Roma, e la Faldini gli starà poi accanto per tutta la vita. Dalla relazione nacque un figlio nel
1954, Massenzio, che però, prematuro, visse solo poche ore, mentre la madre rischiò la vita a causa di una
nefropatia gravidica da
albumina. Dopo la morte del bambino tanto agognato, Totò rimase in casa per molti giorni: la perdita di quel figlio maschio, che avrebbe potuto portare il suo cognome, lo aveva profondamente prostrato, ma l'amore per Franca, pallida e smagrita per la malattia, gli diede la forza di continuare a vivere e a lavorare. Totò e la Faldini, così diversi - sia di carattere sia di mentalità - ebbero molti scontri, probabilmente dovuti anche alla differenza di età. Furono anche sul punto di separarsi; continuarono tuttavia a vivere insieme fino alla morte dell'artista.
Critiche ed esperimenti [modifica]
Negli
anni cinquanta e nei primi
anni sessanta l'attore era spesso osteggiato da una critica che non apprezzava la sua grande
vervecomica e scoppiettante, e che gli negò sino alla fine il riconoscimento di un grande spessore artistico, con commenti che letti oggi possono apparirci eccessivamente censori e severi. Valgono da esempio alcuni brani di articoli dell'epoca:
| « È veramente doloroso constatare come la comicità di certi film italiani sia ancora legata a sorpassati schemi appartenuti al più infimo teatro di avanspettacolo [...] e Totò sfoggia come al solito i tipici atteggiamenti di quella comicità così banale. » |
| (A proposito de Il medico dei pazzi, su La Voce Repubblicana, Roma, 14 novembre 1954) |
| « È proprio vero, con Totò e Peppino si ride sempre, ma il soggetto è proprio questione di avanspettacolo, se il regista e gli sceneggiatori si sforzassero le loro meningi, per tirare fuori una storia decente, con Totò e Peppino si potrebbero vedere dei film godibilissimi, e invece... » |
| (A proposito di Totò, Peppino e... la malafemmina) |
| « [...] Gli spettatori non sono fortunati, siamo giusti, costretti a ingerire prodotti così squallidamente raffazzonati, così privi di spirito e d'ogni luce d'intelletto umano. » |
| (A proposito di Totò, Eva e il pennello proibito, su L'Unità, Milano, 15 febbraio 1959) |
Totò si prestò anche a esperimenti di cinema, come il già citato
Totò a colori, uno dei primi film italiani girato a colori col sistema
Ferraniacolor, e
Il più comico spettacolo del mondo, primo e unico film italiano tridimensionale, manomesso quasi subito dopo la sua uscita e sostituito con la versione normale bidimensionale. In queste pellicole la quantità di luce necessaria era talmente grande che nessuno osava guardare direttamente le
lampade ad arco per paura di danni alla retina; durante una scena di
Totò a colori l'attore fuggì dal teatro di posa con la parrucca bruciacchiata e fumante. Qualcuno ipotizzò che proprio quelle luci troppo forti gli avessero provocato il primo danno alla vista.
La malattia agli occhi [modifica]
Nel
1956 Totò fece la sua ultima rivista teatrale; in quello spettacolo si ammalerà definitivamente e il danno alla vista non lo abbandonerà più.
Totò, colpito da una grave forma di
corioretinite emorragica essudativa a carattere virale (forse conseguenza della polmonite mal curata), perse completamente la vista nella parte centrale della retina dell'occhio destro (vedeva soltanto sui lati degli occhi, come un vetro appannato). Inoltre, circa venti anni prima aveva già perso l'altro occhio per un
distacco di retina operato male: Totò si ritrovò di fatto quasi
cieco.
Grazie alle cure dei medici, la vista migliorò ma non in modo soddisfacente. Totò, da questo momento in poi, fu costretto a indossare sempre un pesante paio di occhiali scuri, che toglieva solo per le riprese dei film.